![]() In Europa, gli Umbri introdussero forse per primi nella penisola italiana la lavorazione del ferro, mentre attraverso Grecia e Balcani l’arte di diffondeva sino alle Alpi orientali: il Norico divenne un centro ferriero di grande prestigio, anche perché il metallo ivi prodotto conteneva modeste quantità di zolfo e di fosforo mentre era viceversa ricco di manganese che ne migliorava la malleabilità. Verso il VII-VI secolo a.C. l’arte si diffuse verso il nord dell’Europa e la Gallia. Verso il V secolo a.C. i Celti del Norico scoprirono a quel che pare l’arte – già intravista dai Calibi di non decarburare completamente il ferro: ciò aumentò le doti di durezza e di elasticità di quel metallo. L’emigrazione dei celti verso occidente portò questa sapiente metallurgia fino alle isole che, da loro, assunsero il nome di britanniche. Prese così via quel cammino verso l’acciaio, che in Gallia faceva già la sua comparsa nel II secolo a.C. Al problema della durezza e dell’elasticità dei metalli i Romani erano assai sensibili, ma non raggiunsero mai risultati troppo positivi: i corti gladi legionari, armi adatte a colpire di punta, logiche solo nel combattimento a ranghi serrati e a distanza ravvicinatissima, rimasero di ferro scadente, mentre per le armi difensive si usavano in genere bronzo e cuoio. Ce lo ricorda il termine lorica, derivato dall’aggettivo loreus cioè “di cuoio”. Da qui l’attenzione rivolta ai metalli di migliore qualità: Plinio ci parla di acciaio importato dall’India, Diodoro Siculo riferisce sugli accorgimenti dei Celtiberi, che usavano un lungo e rozzo ma non inefficace sistema di raffinazione del ferro “per corrosione”: Sotterravano le lame affinché la parte più scadente arrugginisse, le estraevano poi dal terreno e le rilavoravano. Più tardi i Celti scoprirono la tecnica della damascatura, cioè della marezzatura. Che i Celti fossero in grado di produrre lame in ferro puro ed omogeneo fino dal periodo cosiddetto di La Tène (V sec. a.C.), nonché di controllare empiricamente il grado di carburazione del ferro, è risultato dagli esami metallurgici palese. I marchi di fabbrica esistenti su certe lame hanno rivelato che se ne faceva un intenso commercio e che, dopo la conquista romana della Gallia e del Norico, la produzione si avviò verso forme per così dire “industrializzate”. La presenza romana aveva creato esigenze che sparirono con essa. L’involuzione quantitativa si dovette senza dubbio produrre data la generale flessione demografica ed economica dell’età delle Volkerwanderungen (Migrazioni di Popoli, cioè quelle che chiamiamo Invasioni Barbariche) nonché dato il chiudersi di una produzione in serie volta ad alimentare l’armamento di massa delle legioni. Le armi tesero a divenire, se non tutte, almeno talune, un prodotto di lusso sapientemente rifinito e molto costoso; al corto gladio romano, arma “democratica” da fanteria e da scontri di massa, che non presentava particolari problemi soprattutto nel delicato settore dell’affilatura perché serviva a colpire di punta, s’andò sostituendo la spada lunga da fendenti, arma aristocratica, atta a colpire dall’alto verso il basso e pertanto tale da potersi usare anche stando a cavallo. Diodoro Siculo parla della spatha, la lunga spada dei Galli: e già si trattava di un progresso, in quanto i fabbri avevano difficoltà a forgiare masse relativamente importanti di ferro ed erano costretti, se volevano produrre una lama lunga, a giustapporre per saldatura piccole quantità di metallo a strati, in modo che il prodotto assumeva una struttura a foglie. Ma l’innovazione celtica, o meglio gallo-romana, consisté nell’impiego non più tanto del ferro forgiato quanto piuttosto dell’acciaio temprato. Si trattava certo d’acciaio semidolce o al massimo semiduro: non si sapeva ottenere un acciaio duro, e le stesse operazioni di tempra erano poco efficaci. Tuttavia i risultati erano già notevoli. E la tecnica celtica era collegata con quella dei Germani. I Romani dovettero finire con l’arrendersi all’evidenza: le armi barbariche – per esempio quelle dei Goti, eredi da parte loro della metallurgia orientale – erano migliori delle loro. Vegezio non ha dubbi al riguardo. Le fonti sono concordi nel testimoniare le spaventose ferite inferte dall’arma corta e dritta, ad un solo taglio, detta scramasax. I Germani appresero dai Celti l’arte di forgiare un tipo di spada lunga, molto apprezzata per le doti di bellezza e di efficienza, quella cosiddetta damascata. Sull’origine della damascatura si è incerti: da alcune parti se n’è sottolineata l’analogia, interpretata come imitativa, rispetto al pulad, l’acciaio damascato prodotto in India già all’inizio dell’era volgare; altre ipotesi propendono per un’autoctonia almeno parziale dell’acciaio damascato celtico. Le fucine che lo producevano erano in area romana, ma parte del prodotto era destinato all’esportazione, come mostrerebbero i reperti di Nydam presso l’isola di Alsen (Jutland settentrionale), che ci hanno fornito parecchie spade databili attorno al 240-400 d.C. e simili alle più tarde spade merovinge: damascatura a parte, si tratta di armi discendenti, sia tipologicamente sia tecnicamente parlando, da quelle celtiche del periodo di La Téne. Le spade di Nydam sono provviste di marchi di fabbrica recanti nomi latinizzati – non però latini - e il Salin ne ha ipotizzato l’origine in qualche fucina danubiana: in una zona cioè che fin dal periodo hallstattiano era centro di una produzione altamente qualificata. E’ da notare che al tempo delle Volkerwanderungen quell’area fu interessata appunto dall’immigrazione burgunda: ora, i Burgundi e i Goti appaiono tra i Germani i più profondamente debitori alla cultura delle steppe; e la saga di Attila lo attesta. L’acciaio delle spade di Nydam è poco carburato, ma la struttura del metallo è buona. Conosciamo la spada ottenuta con il metodo della damascatura, sia pure attraverso esemplari nel complesso più tardi: cioè diverse centinaia di spade merovinge di fabbricazione franca e alamanna e dei secoli V-VII, scoperte in vari paesi. Il metodo di lavorazione è alquanto ingegnoso. Si usavano lingotti di ferro a forma di sbarra, alcuni dei quali venivano carburati; si producevano così lame di ferro puro e di ferro carburato che si lavoravano poi sovrammettendole alternativamente: la sbarra così ottenuta veniva torta a spirale, appiattita e lavorata sull’incudine. Con due-quattro sbarre trattate in questo modo si otteneva l’anima della lama, la cui sezione presentava ferro ed acciaio dolce stratificati. A quest’anima si saldavano i “tagli” in metallo più carburato, contenete cioè dallo 0,4% allo 0,6% di carbonio: la saldatura longitudinale veniva sagomata ad incastri, in modo da aumentare la solidarietà fra anima e tagli; si passava poi il tutto alla mola e si poliva “è inutile specificare che si tratta qui di un acciaio molto diverso da quel che noi intendiamo oggi con tale termine. Era semplicemente ferro indurito mediante un processo di ossidazione: il rapporto del suo nome col latino acies, “punta” ricorda ancor oggi che, più che a forgiare intere armi, serviva a farne le parti più esposte alla lotta e bisognose di durezza”. Ne risultava una lama finita il cui spessore medio era di circa cinque millimetri. La lunghezza di armi del genere poteva andare dai settantacinque ai novantacinque centimetri, la larghezza della lama dai tre e mezzo ai sei: il loro peso si aggirava sui settecento grammi circa, in media. Verso l’età carolingia la tendenza fu di appesantire queste lame, allungandole ed allargandole: ciò senza dubbio in corrispondenza del parallelo appesantimento delle armi di difesa e del maneggio della spada da cavallo, più efficace se l’arma è più lunga. Il metallo ottenuto con questi sistemi presenta all’esame metallografico una struttura a grani serrati alquanto omogenea, con il massimo di durezza e il massimo di tenacia a quel tempo compatibili. Il punto debole di tutta questa lavorazione rimaneva la tempra; le operazioni di tempra, appunto, con tanta meraviglia descritte dalla poesia germanica, restano superficiali al punto che, secondo il modo di vedere moderno, si trattava di lame non propriamente temprate: nel senso cioè che nell’acciaio così ottenuto non era presente martensite. Ad ogni modo i saggi di resistenza effettuati su lame di questo tipo e su altre coeve costituite da una sola sbarra di ferro forgiato hanno mostrato che le prime sono assai meno fragili delle seconde, e al tempo stesso poco deformabili. ![]() Al di là delle qualità intrinseche di queste armi, il pregio che doveva presiedere al loro grande prestigio era la bellezza. La damascatura creava sulla superficie delle lame nuove un effetto iridescente, quasi serico, assai apprezzato. La damascatura non era del resto che una fra le tecniche di fabbricazione di spade portentose; la saga germanica, a proposito del fabbro Wieland, presenta ben più complessi procedimenti, che corrispondono ad una fase in cui la damascatura era ormai superata: “ridusse la spada in fine limatura che mescolò poi a della farina. Fece poi digiunare per tre giorni degli uccelli addomesticati e dette loro quel miscuglio da mangiare. Mise quindi nel forno gli escrementi degli uccelli, portò a fusione in modo da depurare il ferro da ogni scoria, e con il metallo così ottenuto forgiò una nuova spada. La tecnica usata da Wieland, raffinatissima, richiede un tempo assai lungo per fabbricare una sola spada, sia pure destinata ad un sovrano: mesi, addirittura. Le difficoltà del forgiare una lama lunga sono (nella saga) abbastanza ben indicate dal fatto che più il metallo è perfetto, più le dimensioni dell’arma si riducono. Nella lavorazione entra un agente di cementazione dell’acciaio, l’escremento d’uccello, ricco di carbonio e d’ammoniaca e di facile reperimento. Probabilmente gli “uccelli domestici” cui Wieland serve quel pasto indigesto erano oche, le cui feci contengono appunto una buona quantità di carbonio e d’ammoniaca. Il metallo così ottenuto era omogeneo e ottimamente fucinabile. Naturalmente, siamo con questo ben al di là delle tecniche di damascatura. [nota: I viaggiatori arabi del IX secolo rilevano anch’essi la maestria dei fabbri germanici e l’uso di tecniche del genere. Ne aveva già parlato al-Hudoli nel VII secolo; ripresero nei secc. IX-X l’argomento per esempio al-Biruni e al-Kindi, con allusioni anche agli uccelli mangiatori di ferro, che trovano paralleli in India e in Cina. Data la scarsità di metallo nelle sue terre, l’Islam mediterraneo è sempre stato un buon acquirente dall’Europa di “spade franche”: anche durante le crociate, nonostante le proibizioni papali. Spade di questo tipo dovevano valere un patrimonio, e in effetti le armi migliori si trovano solo in tombe di personaggi altolocati. Rispetto al carattere “democratico” delle armi romane, prodotte in serie e in genere spoglie di ornamenti preziosi, queste armi-gioiello concorrono nel farci intendere quanto, nel passaggio tra antichità e medioevo, la guerra e il guerriero siano divenuti un’attività ed una professione aristocratica, circondata da un valore ed un rispetto prima ignoti all’Occidente. Secondo fonti arabe un’ottima spada poteva valere fino a mille dinar d’oro, calcolando il dinar d’oro a 4.25 grammi, ne viene che una spada poteva sia pur eccezionalmente valere l’equivalente di 4.25 chilogrammi d’oro: un’autentica fortuna, la nostra ottima spada-tipo avrà avuto un valore pari a 47,6425 chilogrammi d’argento, prezzo limite, beninteso, e magari esagerato: prezzo limite tuttavia d’una scala di valori assai sostenuta E’ da notare come alla fine del IX secolo la produzione di spade damascate cessi bruscamente, sostituita da quella di spade completamente in acciaio assai omogeneo: la spada di Wieland è di questo tipo. Sigmund, figlio di Volsung, ottiene col favore di odino una spada, l’eroe si rifiuta di cederla perfino contro il triplo del suo peso in oro. La presenza del ferro in guerra era tanto più ossessiva quanto più scarsa era nella vita quotidiana. In quell’epoca (carolingia) di foreste, in legno erano molti edifici anche importanti, in legno per lo più le stesse fortificazioni, in legno gli utensili, in legno quasi tutti gli attrezzi agricoli. Estremamente costoso, ma fonte al tempo stesso di potere e di ricchezza, il ferro veniva gelosamente custodito da quanti ne disponevano. Se ciò valeva per il ferro grezzo, ancor più valeva per quello lavorato. E poiché il regno franco includeva quell’aerea reno-danubiana famosa da secoli per la sua elevata produzione metallurgica e l’area mosana di meno antica ma non meno prestigiosa tradizione, doveva ben presto nascere una questione delle res vetitae, dei generi che non era legittimo esportare verso i paesi abitati dai nemici della Cristianità: e che erano viceversa, guarda caso, i più ambiti e meglio pagati da Slavi, Avari, Scandinavi, Saraceni. Carlomagno tentò per tempo di proibire l’esportazione di spade e bruniae (armature) ma, evidentemente, con scarsi risultati. Gli stessi Scandinavi, appunto – le cui tecniche metallurgiche erano molto migliorate nei secoli VI-VII, e che vengono considerati i veri eredi della grande metallurgia pontica – avevano un estremo interesse per le spade franche, di cui importavano le lame che venivano poi arricchite con magnifiche impugnature, non di rado autentici capolavori di gioielleria. Quanto agli Arabi, un’ininterrotta catena di autori dell’Alto Medioevo fino al Duecento ha elogiato le “spade franche” per la loro solidità e la loro bellezza, paragonabili solo al gauhar, l’acciaio bianco yemenita, bello – si diceva – come una stoffa preziosa [nota: Franchi e Variaghi erano, secondo gli autori islamici, i massimi esportatori di armi in Oriente]. |
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